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Il cuore potrebbe ripararsi con stesso meccanismo di pesci e salamadre

Annuncio rivoluzionario su “Nature”
Il cuore potrebbe ripararsi con stesso meccanismo di pesci e salamadre
di Riccardo Guglielmi

Bari, 7 dicembre 2012
A lezione da pesci e salamandre per curare il cuore malato
Nel futuro il nostro cuore, compromesso da malattie ed età, sarà “riparato” da microRna, con lo stesso meccanismo di pesci e salamandre.
Sono le conclusioni, pubblicate su “Nature”, di una lunga ricerca italiana coordinata Mauro Giacca, direttore dell’Icgeb, (Centro internazionale per l’ingegneria genetica e le biotecnologie) di Trieste, in collaborazione con il Centro cardiovascolare dell’Azienda ospedaliera universitaria cittadina.
Molecole di materiale genetico, microRna, scoperte dai ricercatori italiani, risvegliano nelle cellule cardiache, i cardiomiocti, per esempio dopo un infarto, il processo di riparazione dell’organo compromesso. E’ la riattivazione di una funzione persa alla nascita, nel corso dell’evoluzione, nei mammiferi, ma conservata nei pesci e nelle salamandre. Nella vita embrionale questi microRna sono attivi per la replicazione e la crescita delle cellule cardiache, la formazione e lo sviluppo del cuore. La loro espressione si spegne immediatamente dopo il parto.
La somministrazione di questi frammenti di materiale genetico o di nuovi farmaci, con le stesse proprietà, che nel futuro potrebbero essere prodotti, rimetterà in moto il processo riparativo e la replicazione dei cardiomiociti, senza bisogno di ricorrere al trapianto di cellule staminali. In natura salamandre e pesci sono capaci di “riparare” il cuore con lo stesso meccanismo.
Viviamo tempi di vera epidemia di malattie cardiovascolari. Nel mondo una persona su tre muore a causa di esse. Ogni anno 15 milioni di nuovi casi di scompenso cardiaco secondari, per l’80%, agli esiti di un infarto. Il 2% del Pil dei Paesi industrializzati va in fumo per ricoveri e cure.
Niente più esiti cicatriziali dopo un infarto, meno recidive, meno scompensi, meno angioplastiche, meno by-pass grazie a questa ricerca italiana.  Rendiamo il nostro cuore simile a quello dei pesci o delle salamandre e in cambio risparmio di risorse e maggiore qualità di vita per i cardiopatici.

Lo sport fa bene…ma il troppo sport può far male al cuore

E’ quanto affermato in uno studio eseguito da un gruppo di cardiologi del St. Luke’s American Heart Institute di Kansas City (Usa) e pubblicato sulla rivista scientifica ‘Heart’. Rischio ‘crack’ per il cuore se si corrono troppe maratone in un solo anno.
Esercizio fisico e sport determinano indiscutibili vantaggi sulla psiche e sul corpo. Migliora il tono osseo e muscolare, aumenta l’elasticità, la contrattilità cardiaca e la capacità respiratoria. Diminuisce il peso e la pressione arteriosa, se è associata una corretta alimentazione. Aumenta il tono dell’umore e l’autostima. Anche il sistema immunitario riceve vantaggi e di conseguenza maggiore resistenza alle malattie infettive e tumorali.
Tuttavia, come in tutte le cose, l’esagerazione crea danni, in modo particolare, sull’apparato cardiocircolatorio, la cui compromissione, spesso, può avere effetti drammatici.
Il cuore nelle prime fasi risponde con un aumento dei battiti cardiaci e con maggiore consumo di ossigeno, in seguito, se gli allenamenti sono eseguiti in modo corretto, la frequenza diminuisce e aumenta la contrattilità. Se si praticano allenamenti esagerati per intensità e durata, il cuore, come tutti i muscoli, aumenta lo spessore delle pareti e poi si dilata. Questi due ultimi adattamenti sono negativi per l’individuo. La pressione arteriosa aumenta, la contrattilità diminuisce, l’insufficiente apporto di sangue e ossigeno ai tessuti compromette la funzione degli organi, il sistema nervoso neurovegetativo si sbilancia. Insorgono le alterazioni del ritmo, le aritmie, alcune delle quali possono essere fatali. Sono avvertiti gli atleti fondisti amatoriali che con frequenze anche settimanali, si sottopongono notevoli sforzi in gare di lunga distanza, 20 e 40 Km.
Ogni cuore è diverso e “si adatta” in modo molto personale secondo età, l’alimentazione, la diversità di genere ma soprattutto secondo la genetica. Gli sforzi intensi e gli allenamenti esagerati possono aggravare, specie nei bambini delle piccole alterazioni congenite dell’apparato cardiovascolare, mentre negli adulti sono le malattie coronariche, infarto o angina, che presentano un rapporto diretto negativo con il troppo esercizio fisico. Quando si supera la frequenza cardiaca massimale, facilmente calcolabile con una semplice formula, il cuore scoppia. Controlliamo sempre il battito cardiaco e impariamo a sentire i messaggi che il nostro corpo ci manda, affaticamento, affanno, cardiopalmo, sudorazione.
In conclusione il cuore è progettato per sopportare solo sforzi di breve intensità. Sforzi intensi e duraturi favoriscono l’invecchiamento precoce dell’apparato cardiovascolare.  Facciamo sport a tutte le età ma con sicurezza, dopo una buona visita medica e sotto l’attento e professionale controllo di esperti seri e preparati. E per gli appassionati di maratona (42,195 km) … solo due l’anno.
Bari 5 dicembre 2012

Pillole e farmaci senza fantasia

Gli italiani preferiscono chiamare i propri farmaci con un nome. Per anni la nostra fantasia si è adoperata per etichettare un medicamento con un nome di semplice identificazione. Sinonimi di forza, spesso in latino, per i vitaminici, vezzeggiativi per gli antibiotici, diminuitivi o additivi per i dosaggi ridotti o potenziati ne hanno favorito il commercio e la vendita. Nomi tanto fantasiosi e facili da ricordare, usati spesso per l’autoprescrizione o il “fai da te”. E’ facile l’accostamento al “chiamami per nome e sarò il tuo farmaco”. Viviamo in recessione e anche la fantasia ne fa le spese.
Una recente ricerca del Censis, realizzata per Farmindustria sull’impatto della prescrizione con principio attivo sulla qualità delle cure, dimostra che il 57,6% degli italiani riconosce i farmaci che assume dal nome commerciale, solo il 7,6% tramite il nome del principio attivo e quasi il 35% attraverso entrambi. Vi è poca differenza percentuale tra giovani e anziani, genere, o nord e sud. Il nome commerciale è un importante fattore indicativo, anche se esiste la consapevolezza dell’esistenza di un farmaco equivalente, identificato con il nome della molecola, di costo inferiore. Gli anziani sono più informati sull’esistenza di farmaci a costo minore.
La certezza dell’identificazione induce il cittadino a pagare una piccola differenza per il farmaco “griffato”. Il 45% degli italiani, specie l’anziano o l’utente in pessimo stato di salute, preferisce pagare un ticket maggiorato e ricevere un farmaco di marca piuttosto che quello fornito dal Servizio Sanitario, con lo stesso principio attivo, ma a un costo inferiore. Oltre al nome, un importante aspetto identificativo è dato dalla forma e dai colori della confezione o della pillola.
Nel 30% del campione in generale e nel 39% degli anziani, è alto anche il rischio di confusione in caso di consegna, in farmacia, di un medicinale contenente lo stesso principio attivo ma con una confezione diversa o con un nome differente.
Rimane alta la fiducia del paziente nei riguardi del medico. Il cambiamento è accettato nel 61% se proposto dal medico di fiducia, mentre scende al 16% se il proponente è il farmacista, mentre il 22% è contrario a qualsiasi cambiamento. E’ il medico, l’unico garante del cambiamento.
Il 77,4% degli italiani dichiara di essere a conoscenza che il medico di famiglia deve indicare sulla ricetta il nome del principio attivo. Quasi il 63% è ben informato che, in caso di patologia cronica, il curante può continuare a prescrivere il farmaco con il nome commerciale. Sono più informati gli anziani rispetto ai giovani, le donne rispetto agli uomini. Il 66,7% dichiara di aver già sperimentato la modalità della prescrizione con principio attivo.
E’ avvertita da tutti un’eccessiva pressione economica, voluta dall’alto, sulle scelte prescrittive a causa delle manovre di bilancio. Oltre il 47% ritiene l’attività prescrittiva dei medici negli ultimi dodici – diciotto mesi, condizionata dal fattore economico, il 36,4% la ritiene inalterata, il 6,2% diminuita, mentre il 10% non ha opinioni al riguardo. D’altro canto, per il 77%, esiste l’esigenza di ridurre la spesa pubblica per i farmaci e il 61% ha avvertito un aumento della spesa di tasca propria per l’acquisto di farmaci.
L’uniformità della prescrizione, oltre alla perdita di posti di lavoro per gli addetti al settore, cozza con la consuetudine e la personalizzazione del rapporto dei cittadini con il farmaco. Siamo da sempre abituati a prendere una medicina, spesso quotidiana, resa riconoscibile dal nome commerciale, dalla confezione, dalla forma. Anche il colore ha la sua importanza. Infatti, basta dire la pillola blu e tutti capiscono di che si tratta.
Bari 2 dicembre 2012

Malasanità. Ma quanto mi costi

E’ quanto emerge dal rapporto dell’ANIA, l’associazione delle imprese assicuratrici, nel convegno svoltosi a Roma il 29 novembre.  34.000 denunce nel 2010, di cui circa 21.000 nei confronti delle strutture; costo medio dei sinistri pari a 28.000 euro, spesa globale, per gli accertati casi di malasanità, superiore al miliardo di euro da parte delle assicurazioni. Questa la fotografia dell’attuale italiana. Trend della raccolta premi in aumento, negli ultimi otto anni ha superato l’8%, ma per ogni 100 euro incassati il settore assicurativo ne ha speso quasi 160. Sono numeri che fanno prevedere un inasprimento delle condizioni contrattuali per gli assicurati.
Positive sembrano le proposte pratiche lanciate da Aldo Minucci, Presidente dell’ANIA: creazione di un organismo indipendente che rilevi e analizzi gli errori in medicina, maggiore ed efficace comunicazione medico-paziente, fondi pubblici che coprono “tipologie di rischi non assicurabili”.
Nei paesi scandinavi è operativo un sistema “no fault” in cui, in determinati casi, è previsto un indennizzo standard agli assicurati, senza la ricerca dell’attribuzione della colpa e delle cause che hanno prodotto l’evento avverso. L’adozione di procedure similari potrebbe arginare il ricorso alla medicina difensiva, che come spesso ricordato, incide per tredici miliardi l’anno sul capitolo della spesa sanitaria nazionale.
Fonte: Adnkronos Salute
Bari 1 dicembre 2012

Pasti in ospedale: spesa alta gradimento basso

Oltre un miliardo di euro l’anno è quanto spendiamo per assicurare i pasti in ospedale. Il numero delle giornate di degenza, stimate dal rapporto del Ministero della Salute sulle attività concernenti i ricoveri nel 2010, è stato di 70,7 milioni a fronte di 11 milioni di ricoverati, con una spesa giornaliera media a ricoverato di 15 euro. Alto costo totale ma si registra un basso gradimento. La maggioranza dei ricoverati in Italia riceve, durante le giornate di degenza, pietanze standard poco appetibili e non sempre servite con le dovute accortezze. Anche l’orario di distribuzione è sotto accusa: esami e visite non sono programmati con la distribuzione del vitto. I cibi sono sostanzialmente bocciati da un ricoverato su tre e, in questi tempi di crisi, sembra quasi una beffa che il 40% dei pasti finisca nella spazzatura. Allo spreco di risorse economiche si associa aumentato rischio di malnutrizione.
Pochi sono gli ospedali di eccellenza, dove i ricoverati sono seguiti da team nutrizionali che approntano diete personalizzate per gusti e patologie. Nel sud sono spesso i familiari che provvedono, contro il parere dei medici, a rifornire di nascosto e nei modi più insoliti, i parenti ricoverati con cibi gustosi ma certamente non compatibili con le patologie responsabili della degenza. Dolciumi, prelibatezze, sale, tutto sicuramente dannoso, sono conservati nei comodini e negli armadietti e consumati durante gli orari di visita parenti o la notte quando l’assistenza e le norme di controllo sono ridotte. Sono dati non scritti ma provenienti da esperienza diretta. Per chi boccia il cibo, in modo particolare, gli anziani non riforniti dall’esterno e con gravi patologie, scatta il pericolo della malnutrizione. E’ necessaria una maggiore attenzione per l’alimentazione.
Il problema era stato già avvertito nel 2010 dalla Conferenza Stato-Regioni che approvò “le linee d’indirizzo nazionale per la ristorazione ospedaliera e assistenziale”. E’ stato predisposto un prontuario dietetico, articolato su due settimane, con alternanza stagionale, che preferisse prodotti locali, con cibi particolari in ricorrenza delle festività, con variabilità per le intolleranze alimentari, bilanciamento degli elementi nutrizionali, diete specifiche per le patologie, sino a quelle “ad personam” per le patologie più complesse. Tutto nel rispetto delle abitudini alimentari e degli orari dei pasti. Obiettivo era sconfiggere la malnutrizione, razionalizzare la gestione alimentare in ospedale e, in definitiva, migliorare il rapporto con il cibo dei pazienti ricoverati.
La crisi economica non ha permesso la completa realizzazione del piano su tutto il territorio nazionale e i risultati positivi ancora non si vedono. E’ arrivato il momento che gli enti del Servizio Sanitario pubblico applicano le linee guida già preparate nel 2010. Razionalizzare il sistema, migliorare il servizio aumentando la qualità del vitto, formare il personale addetto alla nutrizione e alla distribuzione, vigilare sulle gare di appalto, monitorare le degenze, basti pensare alle giornate che precedono un’operazione chirurgica in cui il paziente è tenuto a digiuno, sono le strategie risolutive per evitare gli sprechi, ridurre i costi e migliorare la qualità. La speranza è che quando il medico chiede al paziente ricoverato com’è stato il vitto si senta rispondere: ottimo e abbondante.
Bari 27 novembre 2012